Questo contributo storico-giornalistico per evidenziare Ricordi che non si debbono dimenticare e' frutto dell'amico e socio FIDCA Maresciallo Giuseppe TROILO a favore di tutti i Soci già Membro della 36 Aerobrigata. L'amico Troilo e' impegnato anche nella Azioni Culturali svolte con il Club per l'Unesco di Udine e partecipa direttamente anche con lo scrivente alle Giornate Internazionale dell'ONU. Questo impegno svolto dalla FIDCA sottolinea i vari campi di interesse che una Federazione importante come la nostra svolge sia a livello nazionale che internazionale.
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PGM-19 J U P I T E R
Storia poco
conosciuta di un sistema d’arma nucleare, il missile Jupiter, di una
aerobrigata e dei suoi uomini, in un particolare contesto storico: il
contributo italiano alla guerra fredda a cavallo degli anni ’50 e ’60.
La storia della nostra forza aerea dalla sua
ricostituzione post bellica è ricca di episodi che sono sfumati dal tempo. Come
disse un ex capo di stato maggiore “i desideri sono diventati sogni sfumati
dalla memoria”. E così è forse stato per la Aerobrigata 36°, che nulla ha a che
fare con il 36° Stormo, questi uomini ormai pensionati di cui pochi ancora in
vita hanno prestato servizio per pochi anni con un sistema d’arma, lo Jupiter,
che era l’evoluzione delle V2. Questo missile fu per quei pochi anni l’unica
arma, nucleare e non, in grado di colpire il territorio dell’Unione Sovietica e
con tutte le limitazioni del caso ( la famosa doppia chiave) un vero deterrente
strategico in confronto agli aerei che allora ed anche in futuro avremmo potuto
schierare, quindi con gli Jupiter la nostra Aeronautica negli anni 60’ basava
la sua risposta credibile solo su missili…e questo non è un aspetto da sotto
valutare.
Il 4 ottobre del 1957 i Russi mandavano in
orbita il loro primo satellite, lo Sputnik, superando così gli americani nella
corsa alla tecnologia e dimostrando di potersi dotare di missili
intercontinentali in grado di colpire, anche con testate atomiche, oltreoceano.
La reazione negli USA fu di grande preoccupazione e nello stesso tempo in
Europa i paesi alleati manifestarono forte apprensione per la loro difesa,
aspettandosi da Washington una risposta valida ed efficace, infatti la
sicurezza europea, contro un eventuale attacco sovietico, era legata
completamente al sostegno degli Stati Uniti. La reazione immediata del
presidente Eisenhower fu quella di rinforzare militarmente la NATO con i mezzi
che aveva a disposizione, e cioè con missili di raggio intermedio che soltanto
da basi europee avrebbero potuto raggiungere e colpire quelle russe. Nel
dicembre del 1957, durante una riunione del Consiglio Atlantico, Eisenhower
descrisse il suo nuovo programma di difesa proponendo l'installazione di
missili balistici Jupiter, che Italia e Turchia accettarono di ospitare. Dopo
le elezioni del maggio 1958 si formò in Italia un governo di centro con a capo
Amintore Fanfani, che intendeva mettere a frutto una politica estera in cui il
paese avrebbe potuto svolgere un ruolo più attivo. Uno dei principali fini del
nuovo corso aperto da Fanfani era quello di aumentare l’influenza diplomatica
italiana nel Medio Oriente favorendone il ruolo di mediatore nei rapporti fra
quest’area e gli Stati Uniti. Per muoversi in tale direzione, tuttavia, era
necessario rafforzare i rapporti con l’alleato americano e quindi manifestargli
una fedeltà politica indiscussa. Se si considera questa interpretazione, sembra
plausibile ipotizzare che la disponibilità ad ospitare i Jupiter, non fosse per
l’Italia semplicemente una scelta sostenuta da motivi di sicurezza e difesa, ma
il risultato dell’applicazione di uno schema che rispecchiava una logica di
tipo più nazionale. Accettando i missili americani l’Italia acquisiva maggiore
importanza anche perché, essendo divenuta di conseguenza un bersaglio di
eventuali attacchi Sovietici, avrebbe potuto avere dalla NATO una più cospicua
assistenza militare. A suffragio delle tesi appena esposte si possono prendere
in considerazione le caratteristiche tecniche del tipo d’arma, in postazione
fissa e visibile, obsoleta rispetto ai nuovi Polaris installati su
sommergibili. In sostanza erano armi che avevano di fatto un valore politico
molto più alto di quello militare, perché erano il simbolo di una risposta immediata
ad un eventuale attacco dei Sovietici, della costante presenza americana a
difesa degli Europei, del prestigio che conferivano al paese che le deteneva;
in quel momento, del resto, non esisteva nessuna alternativa che fosse
altrettanto valida dal punto di vista tecnico e militare. Gli accordi fra Roma
e Washington vennero conclusi attraverso uno scambio di note che, a differenza
di un trattato, permise di aggirare le eventuali difficoltà politiche che
l’opposizione avrebbe potuto frapporre in parlamento al momento della ratifica;
fu appunto la volontà di evitare questa possibile reazione negativa ad indurre
Fanfani a procedere con cautela, suggerendo alla Casa Bianca di condurre a
termine la missione con la massima riservatezza, facendola apparire non come un
incremento dell’arsenale atomico già presente in Italia, ma come un’attività
militare di normale attuazione. All’Italia venne concesso il controllo sul
lancio del missile, ma le testate atomiche rimanevano di proprietà americana e
mantenute separate dai vettori, per cui non sarebbero state affidate agli
Italiani in nessun caso. La legge americana sulla condivisione delle armi
nucleari, il Mc Mahon Act, non prevedeva infatti alcuna concessione in
proposito. Per quanto concerne invece il lancio vero e proprio, esso sarebbe
stato effettuato da una squadra costituita da militari italiani comandati da un
loro ufficiale, il quale avrebbe tenuto sempre appesa al collo, per motivi di
sicurezza e prontezza, la chiave che avrebbe permesso l’avvio del conto alla
rovescia. Un’altra chiave sarebbe stata custodita da un ufficiale americano e
sarebbe servita invece per effettuare l’ultimo passaggio del conto alla
rovescia. Un punto centrale degli accordi era l’aspetto finanziario, in quanto
il governo italiano precisò che il proprio sostegno allo schieramento dei
Jupiter non corrispondeva ad un altrettanto ampia disponibilità ad assumersi i
costi dell’operazione. Infatti gli oneri economici assunti da parte italiana si
limitarono sostanzialmente alla fornitura dei terreni e al finanziamento per la
costruzione delle strutture. Si decise che il sito strategicamente ottimale in
cui impiantare le rampe fosse l’Italia meridionale ed in particolare le zone
della Puglia e della Basilicata: infatti fra queste due regioni vennero
individuate dieci località, nelle quali sarebbero sorte le postazioni di lancio
ognuna ospitante tre missili Le basi rimasero attive per tre anni, dal gennaio
1960 all’aprile 1963, momento in cui iniziò lo smantellamento in seguito agli
accordi intervenuti fra Stati Uniti e Unione Sovietica dopo la crisi di Cuba.
Quei missili vennero sostituiti con sistemi d’arma più moderni ed efficaci
montati su sommergibili, i Polaris, un obiettivo molto più difficile da colpire
e quindi più sicuro. Inoltre a differenza degli Jupiter, i nuovi missili non
erano soggetti al controllo congiunto dei governi, ma rimanevano sotto la
custodia esclusiva degli USA. Quando nell’ottobre del 1962 gli Stati Uniti
vennero a conoscenza del fatto che i Sovietici stavano costruendo rampe
d’appoggio per missili balistici sull’isola di Cuba, ebbe inizio uno dei
momenti culminanti della guerra fredda. Probabilmente Kruscev aveva deciso di
installare missili a media portata nell’isola caraibica, a solo novanta miglia
dagli Stati Uniti, perché avrebbero avuto lo stesso effetto strategico di
quelli intercontinentali. Con questa mossa ciò che il leader sovietico voleva
ottenere era non soltanto un equilibrio più stabile tra le forze nucleari dei
due stati (gli Stati Uniti possedevano già da tempo anche loro missili ICBM) ma
anche un elemento di pressione che si riflettesse sulla questione ancora aperta
di Berlino. Attraverso numerosi e difficili passaggi diplomatici e negoziati,
la crisi si chiuse con l’accordo informale fra Kennedy e Kruscev secondo il
quale i missili Jupiter sarebbero stati ritirati dalla Turchia e dall’Italia e
che i Russi avrebbero chiuso le loro basi missilistiche a Cuba. L’intesa reale
fra le due superpotenze non fu resa nota, per cui ufficialmente la conclusione
della crisi ebbe tutt’altra natura: pubblicamente si affermò soltanto che
all’impegno statunitense di non invadere l’isola sarebbe seguito quello da
parte russa di ritirare i missili dall’isola. La realtà fu resa nota con la
pubblicazione, a metà degli anni Ottanta, delle discussioni registrate fra
Kennedy e i suoi collaboratori durante la crisi. I militari della 36ª
Aerobrigata Interdizione Strategica (AB-IS) I missili vennero affidati
all’Aeronautica Italiana, per cui i militari scelti per la missione intrapresero
un periodo di addestramento negli Stati Uniti dopo il quale, tornati in Italia,
furono assegnati alle rispettive basi, per ognuna delle quali erano disponibili
circa centotrenta uomini, venne così costituita la 36a Aerobrigata Interdizione
Strategica.
Quale fu l’attività militare nelle basi? Al
riguardo, a seguito di contatti informali con alcuni militari che fecero parte
della Brigata la maggior parte dei quali ormai in congedo, è emerso lo spirito
di corpo e l’orgoglio di aver fatto parte, pur se per un breve periodo, ad una
brigata unica nel panorama passato presente e futuro della nostra aeronautica
militare. I militari diedero il loro contributo alla difesa della nazione pur
essendo privi di una visione globale del quadro politico internazionale per motivi
legati alla situazione culturale e politica del momento. In seguito, vennero a
conoscenza dei risvolti della vicenda, facendo i dovuti collegamenti anche con
la crisi cubana. Con riferimento alle sensazioni generate in loro dal fatto di
lavorare con ordigni nucleari, la maggior parte ha risposto che non tutti si
rendevano conto dei pericoli e di fatto non c’era differenza con le armi
convenzionali, perché era importante soprattutto adempiere al loro incarico. Le
basi per tutto il periodo sono rimaste in piena efficienza e pronte a lanciare
i missili entro quindici minuti in ogni momento. Era prevedibile che i
Sovietici sorvegliassero l’attività della 36a e di questo si ebbe conferma
quando nel gennaio del 1962 un MiG bulgaro fu costretto da un guasto ad un
atterraggio di fortuna nella zona di Acquaviva. E’ probabile che il pilota
stesse scattando delle fotografie ed in proposito ci sono varie teorie: un ex
ufficiale di lancio della 36a ritiene che probabilmente la missione del
velivolo fosse quella di effettuare un test per capire fino a che quota sarebbe
stato intercettato dai radar, i quali in effetti ricevettero due segnali della
sua presenza finché l’aereo volava ad alta quota ma che poi lo persero di vista
quando si abbassò a pelo d’acqua. Sull’episodio si riuscì a mantenere un certo
riserbo perché a giungere sul posto, anche prima dei Carabinieri furono alcuni
ufficiali americani, forse appartenenti alla CIA; questi ultimi avrebbero avuto
modo di verificare subito i motivi dell’atterraggio di fortuna ed a prelevare
il rullino dalla macchina fotografica. Comunque, la conseguenza più immediata
dell’accaduto fu che da quel momento due caccia dell’Aeronautica Italiana
furono tenuti in allarme per la protezione delle basi.
Dai colloqui avuti con i militari che hanno
vissuto l’esperienza di lavorare con i missili nucleari, si può desumere quanto
questa fosse per loro una missione particolarmente importante sia per poter
attingere alle conoscenze tecniche americane sia, per molti, per la crescita
professionale non indifferente che comportò.
Oggi le aree si trovano in uno stato di
completo abbandono pur essendo ancora formalmente parte del demanio militare e
pur se recintate non sono vigilate.
Maresciallo Giuseppe Troilo .Socio FIDCA di Udine.
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